giovedì 3 marzo 2016

Mercoledì cinema, giovedì recensione. Lo chiamavano Jeeg Robot

La stupenda locandina del film 

Da grandi poteri derivano grandi responsabilità.
Questo assunto è stato (ed è, tutt'ora) alla base di tutta l'epica - e l'etica - dei supereroi (compreso quel capolavoro di Watchmen, anche se in maniera distorta).
Lo chiamavano Jeeg Robot non si sottrae a questa logica, anzi ci sguazza in pieno.

Se avete letto almeno un fumetto o visto un film a tema supereroistico sarete a conoscenza degli stilemi del genere: lo sfigato/emarginato che per un incidente acquisisce dei superpoteri, la consapevolezza della propria forza, l'uso personale delle abilità, la redenzione a causa di un avvenimento traumatico, il cattivo completamente folle che ti spiega il suo piano, ecc. 
Il film di Mainetti segue tutto l'iter, anche in senso lineare (a differenza di Deadpool, di cui parleremo a breve, che parte nel mezzo dell'azione e torna indietro con un paio di ottimi flashback).

E quindi dove sta la differenza rispetto a tutto il resto che abbiamo visto finora?

Personalmente l'ho trovata in due aspetti: l'ambientazione e la crudezza della realtà. 
Vi spiego.
Ambientazione: il film medio di supereroi è ambientato in America, lo sappiamo tutti. Gli alieni atterrano sulla Casa Bianca, i supercattivi si palesano in piena New York, il Baxter Building svetta nello skyline della grande mela e così via. Lo chiamavano Jeeg Robot è ambientato tra Tor Bella Monaca, un quartiere periferico di Roma e il centro città. Vedere le scene d'azione allo stadio Olimpico ha aggiunto un tocco di vicinanza e di aderenza alla realtà che ha fatto breccia nel mio cuoricione di nerd. È stato quasi come veder volteggiare l'Uomo Ragno dalle guglie del Duomo... una lacrimuccia sarebbe scesa a chiunque.

La scelta dell'ambientazione si porta dietro tutta una serie di ulteriori scelte, necessarie per la credibilità della storia. Tra cui, il secondo aspetto di cui vi accennavo prima: realtà vera.
Dimenticatevi i criminali patinati dei fumetti di supereroi, la pietà in Lo chiamavano Jeeg Robot non è ammessa. Nelle due ore scarse vediamo criminali di mezza tacca, corrieri che devono cagare gli ovuli, mafia, batterie pronte a rapinare i furgoni portavalori, case sgarrupate, sparatorie, esecuzioni, sporcizia e degrado, ossia tutto quello che leggiamo, sentiamo e vediamo ogni giorno nelle città italiane. Non ci viene risparmiato niente ma soprattutto lui, Hiroshi Shiba (alias di Claudio Santamaria) è figlio di questa realtà: è un disagiato che mangia solo yogurt, guarda solo porno e detesta la ggente perché nessuno ha mai fatto niente per lui. 
E ci credo che ti metti a rapinare bancomat appena scopri di avere una forza sovrumana.


Per chiudere, solito mini elenco dei perché sì e perché no.
Sì:
Le interpretazioni dei tre protagonisti: Claudio Santamaria più massiccio di come me lo ricordavo e perfettamente calato nella parte del supereroe-suo-malgrado, Luca Marinelli, eccezionale nella parte del cattivo crudele e a tratti folle (in alcuni momenti mi ha ricordato Joker) e Ilenia Pastorelli, una credibile ragazza fragile e dal passato tormentato (ho appena scoperto che arriva dal Grande Fratello... quindi qualcosa di buono ancora lo produciamo attraverso la tv?)

La passione per la musica italiana de Lo Zingaro e le cantate che si fa in macchina coi suoi sgherri.

La colonna sonora, in particolare la sigla di Jeeg Robot riarrangiata da Michele Braga e Gabriele Mainetti e cantata da Claudio Santamaria.

Pelle d'oca, eh?


No:
E niente, mi verranno in mente in un secondo momento.

Ultimo appunto: nel film c'è anche Salvatore Esposito, diventato famoso per la parte di Genny Savastano nella serie Gomorra. Peccato che pure qua gli facciano fare la parte del camorrista (per carità, bravissimo, eh!)... evitiamo l'effetto Tony Sperandeo, vi prego.

Che sennò mi girano i cugghiuni!

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