lunedì 31 agosto 2015

Ci vediamo in giro, eh?

Dal blog di Flavio Nani

Io no.
Ci vediamo al mio ritorno.

(se volete leggere altre strisce dell'Orso Ciccione, le trovate qui)

lunedì 24 agosto 2015

House of Cards. Prime impressioni

L'immenso Kevin Spacey/Frank Underwood

Le serie tv, per me, sono come i libri: devo scegliere il momento giusto per vederle. 
Se mi forzo so già che non presterò abbastanza attenzione alla trama e andrà a finire che mi perderò un prodotto interessante.

Dopo la giustificazione di rito, eccomi a scrivere due parole su una serie di cui tutti hanno già parlato, che ha vinto un numero spropositato di premi, è stata la prima produzione di Netflix e ha già raggiunto le tre stagioni (senza perdere mordente, mi pare di capire).

E cosa vuoi dire di una serie così? Un paio di impressioni a caldo e basta, ché non voglio togliere troppo tempo alle avventure di Frank Underwood.

1) Al regista David Fincher (vi dice niente questo nome?) e allo sceneggiatore Beau Willimon sono serviti esattamente 3 minuti e 23 secondi per presentare il protagonista, farci capire il tono della serie, darci una panoramica sui personaggi minori e creare l’equilibrio iniziale alla base di ogni storia. Quando è partita la sigla della prima puntata (al minuto 3:24) io ero già esaltato e saltellavo sul divano. 

2) Sarà che da piccolo ho adorato Ferris Bueller e la sua pazza giornata di vacanza ma ogni volta che un personaggio buca la quarta parete io a momenti gli rispondo, tanto mi sento coinvolto (sarà per questo che, ultimamente, sto recuperando tutto Deadpool?). Kevin Spacey/Frank Underwood lo fa in maniera magistrale, inoltre.

3) Pare che Bill Clinton abbia detto a Spacey, parlando di House of Cards, “il 99 per cento di quel che fai nella serie succede davvero. L’un per cento sbagliato è che non potresti mai far passare una legge sull’istruzione così velocemente”. A questo punto mi è caduta la mascella per l’esaltazione.

4) Last but not the least: le prime puntate sono la materializzazione del detto “dietro ogni grande uomo c’è una grande donna”. A me sono venuti in mente i Clinton – appunto – e le grandi dinastie di politici americani (i Kennedy in primis, ovviamente). Quindi bravissima anche Robin Wright.

House of Cards promossa su tutta la linea, finora. Seguiranno aggiornamenti man mano che andrò avanti con la visione.

Ciao a tutti, vado, ché ho del binge watching da fare.

martedì 18 agosto 2015

Ex_machina. Geni che dimenticano dettagli.

Il poster del film

Il circolino del mercoledì cinema non ha ancora ripreso le sue regolari attività ma in casa non ci facciamo mancare nulla: l’altra sera ci siamo visti Ex_Machina (sono riuscito a convincere la mia metà a vederlo solo paragonadolo a Her e, quindi, barando).

Non farò giri di parole: il film non mi è piaciuto. 
O meglio, ha delle ottime premesse e un interessante sviluppo della trama ma si smoscia sul finale. 
E se canni il finale di una storia è come preparare una bella torta ma sbagliare la cottura. Gli ingredienti saranno stati pure buoni ma se il risultato è appena mangiabile e poco digeribile, qualcosa hai cannato, punto.

Ex_machina comincia bene, e a bomba: Caleb (il protagonista) ci viene subito presentato come il vincitore di questa lotteria aziendale ma invece di finire nella vasca a nuotare con gli altri impiegati selezionati, finisce nella super magione di Nathan, un genio a metà strada tra Batman e Steve Jobs (che, da subito, sta sulle palle a metà del pubblico). 
Con la stessa velocità ti rendi conto di essere immerso in una realtà diversa da quella usuale: la casa di Nathan è il capolavoro della domotica (bella la scena sottilmente inquietante della porta che si chiude in automatico alle spalle di Caleb appena entrato) e il giorno stesso il protagonista si trova faccia a faccia con Ava, un robot dal viso angelico (e tu già pensavi alla fregatura che si celava dietro i suoi occhi) e dalle forme femminili, pur se meccaniche.

Non procedo oltre con la storia e vi evito gli spoiler, almeno per ora.

Il film va avanti con una serie di sessioni tra Ava e Caleb mentre io mi facevo, nell’ordine, le seguenti domande:

- Vuoi vedere che il robot è Caleb e il test è al contrario?
- Come si rifornisce di viveri il caro Nathan se vive là sui monti con Annette?
- Come funziona la programmazione del cervello di Ava se è tutto composto da gel?
- Nathan ha ideato, progettato, plasmato e montato il robot da solo? Proprio solo solo?
- Non poteva fare un robot con le tette più grosse?

Insomma i dubbi dell’uomo qualunque.

La delusione arriva verso la fine del fim.

A parte la scena/citazione di Barbablù che è di un’inquietudine da pelle d’oca, il resto scivola via senza lasciare il segno. 
Classico ribaltamento dei punti di vista con teorico spiazzamento del pubblico e, invece, voilà, più domande di prima (spoiler alert!):

- Ma ‘sto gran genio di Nathan l’unica cosa che non aveva capito era che i blackout li provocava Ava? E c’ha messo 5 giorni a mettere una telecamera a batteria nella stanza dei colloqui?

- Nessuno degli sceneggiatori ha mai letto Asimov? Nemmeno visto Io, robot? Non dico citare a memoria le tre leggi della robotica ma almeno inserire un comando vocale per spegnere il cervello dell’intelligenza artificiale in caso di cazzi amari? ‘Na roba tipo “Geronimo” e il robot si accascia, no?

- Quanto possono essere affilati i coltelli? E che sò, katane?

Del film mi sono piaciute poche cose, insomma.

A parte lo sviluppo delle intelligenze artificiali, l’intuizione che più mi ha colpito è stata quella di usare i motori di ricerca (viene menzionato un alter ego di Google) per elaborare, processare e condensare il modo in cui l’umanità pensa.

Il che è abbastanza verosimile, se ci pensate.

Ah, niente più spoiler.

Insomma, per farla breve: volete vedere un bel film sull'evoluzione dei rapporti tra uomo e macchina?

Guardate Her.

giovedì 13 agosto 2015

La seconda stagione è sempre più difficile. True detective 2

Il poster della seconda stagione con l'immenso Vince Vaughn

La prima stagione di True Detective mi aveva colpito in profondità: i paesaggi spettrali e marci della Louisiana, la becera provincia americana (quasi figlia de Le colline hanno gli occhi o Non aprite quella porta), gli omicidi in odore di setta, i dialoghi (e riflessioni) sempre ben calibrati, degli attori della madonna (ancora mi stupisco che Matthew McConaughey abbia cominciato la sua carriera con i film demenziali e le commediole)… insomma, l’ho seguita con piacere.

Quando è uscita la seconda, non ho esitato un solo momento prima di scaric vederla.

Il mio giudizio è positivo? Sì.

La seconda stagione è bella come la prima? No.

A parte la sigla, che vince a mani basse su tutte quelle del 2015.


Ho deciso di approfondire la mia conoscenza di Leonard Cohen, non fosse altro per capire come un vecchietto – è nato le 1934! – sia riuscito a partorire un suono così moderno.

Detto questo, perché la seconda stagione mi è piaciuta ma ho comunque pronunciato il fatidico meh! alla fine dell’ottava puntata?

Per due motivi. Occhio agli spoiler.

Perché credo che gli sceneggiatori abbiano usato delle soluzioni un po’ troppo semplici per risolvere alcuni nodi fondamentali: ad esempio, quale imprenditore che sta facendo un affare losco a) firma un contratto a nome suo senza usare un prestanome e b) lascia quel contratto insieme a tutti gli altri non in una cassaforte, non in mano a un notaio corrotto ma in un cassetto di una scrivania nella villa del bunga-bunga? E andiamo, su.

Perché il collegamento tra la rapina dei diamanti, da cui nasce la rete di potere marcio sulla città di Vinci e – appunto - l’ascesa sulla scena politica di Chessani & co. non è che sia poi spiegata così bene. Sì, va bene, può essere lasciata all’interpretazione dello spettatore ma almeno darmi un indizio su come una manica di furbetti sia passata dal rapinare banche all’avere in mano tutti gli appalti di un’area industriale sarebbe stato utile.

Fine degli spoiler.

In ogni caso, sarà per passione personale ma l’argomento politica e potere mi ha affascinato molto. 
Gli attori sono quasi tutti superlativi (Vince Vaugh, Colin Farrell e Ritchie Coster su tutti gli altri), ci sono alcune scene veramente stupende e il finale di stagione è amaramente verosimile.

Quindi, se per sfuggire alla canicola volete stare in casa e vedere qualcosa di interessante, breve (sono solo 8 puntate) e ben recitato, True detective 2 fa per voi.

P.S.
Due aggiunte in coda:
- Ho tifato per Frank tutto il tempo.

- Ma quant’è bella Kelly Reilly? E quella zeppolona british, poi…

venerdì 7 agosto 2015

Le storie Bonelli: fumetti (anche) per chi non legge fumetti


Negli ultimi anni, nel piccolo grande mondo del fumetto, si è parlato tanto del variegato pubblico a cui gli autori si rivolgono con le loro opere. 
È stato rappresentato prima come un’esigua nicchia, poi un po’ i social, un po’ i nuovi autori e le politiche delle case editrici, si è trasformato in una folla da numeri ragguardevoli.

La verità dovrebbe stare nel mezzo, ma tanto non è questo l’argomento del post.

Sarà che seguo con assiduità il lavoro di chi si rivolge a un pubblico nuovo (o comunque cerca di farlo) – leggasi Bao Publishing con Zerocalcare, la Bonelli degli ultimi anni con le novità di Roberto Recchioni e le nuove scelte editoriali in generale  – però io ho sentito spesso parlare di voler raggiungere chi non ha mai letto i fumetti, invece che .

Ci sono storie di successo eclatante in questo senso (il già citato Zerocalcare) e ci sono operazioni interessanti che – secondo il mio parere – stanno facendo ottimi passi avanti.

Mi riferisco, nello specifico, a “Le storie”, la collana della Bonelli arrivata in questi giorni al trentaquattresimo numero e al secondo speciale a colori.

Quali sono i punti di forza di una serie come questa?

Uno solo, essenziale e fondamentale: ci trovate tutto quello che volete.

Siete appassionati di horror? Quale sfumatura, lo splatter con gli zombie e le tettone? Il gotico ottocentesco? Troverete ottimi esempi dell’uno e dell’altro.

Vi piace la fantascienza? Idem.

I western? Ce l’ho.

Il giappone feudale? Voilà.

I gangster? Vabbè, avete capito.

Quasi tutte le storie sono ben strutturate e raccontate (ho scoperto alcuni sceneggiatori bravi e altrettanti disegnatori di talento). Il peggio che vi può capitare, se comprate tutti i numeri come faccio io, è leggere una storia di un genere di cui non vi è mai fregato una beneamata.

Mi chiedo solo come possa un non collezionista comprare un solo numero (magari il 18, chessò) e metterlo sulla libreria senza farsi venire una sincope ogni volta che lo guarda, da solo, senza gli altri numeri intorno. Ma forse sono fisime mie.

Tutti a parlare di letture estive, in agosto, questo è il mio contributo alla causa. 
Andate e leggete, orsù.


Magari recuperate anche i numeri vecchi, così se dovessi capitare a casa vostra, non vedrete vibrare la mia palpebra da collezionista compulsivo. Li trovate qui.

martedì 4 agosto 2015

Scoprire un fumetto che tutti hanno già scoperto

La copertina del primo numero

Sigla: immaginate Cristoforo Colombo con la voglia di dire a tutti che ha scoperto una via per le Indie e i vichinghi che fanno spallucce e ridacchiano alle sue spalle perché scorrazzavano in Vinland già da qualche centinaio di anni.

Questo (inutile) parallelo storico serve a farvi capire come mi sento.

L’altro giorno, cercando dei libri e dei fumetti per l’estate, sono incappato nel primo volume di Last Man (di Balak, Bastien Vivès e Michael Sanlaville).

L’ho preso perché ne avevo sentito parlare nell’internét e un amico me lo aveva caldamente suggerito (la combo realtà virtuale/realtà vera, per me, è un valore aggiunto notevole).

La sera, a casa, mi informo su chi siano gli autori (due su tre hanno esperienze come storyboard artist e magari questo può avere influenzato leggermente il mio giudizio), prendo il volume – formato manga, maneggevole e compatto – e… niente, ho dovuto fermarmi per non leggerlo tutto (non è una forma di sadismo autoinflitto, semplicemente cerco di dosare gli acquisti e di conseguenza le letture).

Bella la storia, per la sua capacità che ha avuto di farmi entrare, nel giro di poche pagine, in un mondo fantastico simile al nostro medioevo (con l’aggiunta di un tocco di magia) e per come tratteggia i personaggi e le loro caratteristiche.

Non male i disegni ma niente di che. Il mio è un giudizio estetico puramente personale, basato sul gusto: mi sono sempre piaciuti i disegni realistici pieni di particolari e sulle pagine di Last Man, invece, l’essenzialità – del tratto e dei paesaggi – la fa da padrona. Il che non è necessariamente un male, comunque.

Stupende le inquadrature. Ora, io non sono approdato ieri al fumetto. Pur non essendo un tecnico, ho un minimo di occhio allenato: ho letto fumetti italiani, americani, francesi, giapponesi, di ogni genere e formato… però, per la prima volta, con Last Man ho avuto la sensazione che i disegni si muovessero, che lo spazio bianco tra le vignette fosse pieno. Ed è stata una sensazione elettrizzante.

Ultima cosa bella di questo fumetto: è una storia conclusiva. Sei numeri e via.

I primi tre volumi sono già usciti con la Bao Publishing.
Se volete comprarli, dal 27 agosto al 23 settembre sul sito baopublishing.it li trovate col 25% di sconto (fine piccolo spazio pubblicità).

Io di sicuro li prendo.

P.S.
Vi farò sapere anche dei prossimi numeri.