martedì 24 novembre 2015

Ferenc Karinthy: Epepe

La copertina (bruttina) del libro

Si vede che scrivere di libri mi ha preso bene perché – a soli tre giorni di distanza – eccomi con un’altra recensione letteraria (sì, il tono di questa prima frase è volutamente autoincensatorio ma chi conosce la mia scarsissima costanza sa lo sforzo fatto per scrivere due post in tre giorni).

Complice un amico che mi consiglia e mi spaccia i libri, sono arrivato ad avere tra le mani prima Anna di Niccolò Ammaniti (qui la recensione se ve la siete persa) e poi Epepe di Ferenc Karinthy.

Di quest’ultimo mi aveva attirato la trama, perché se fosse stato per la sola copertina l’avrei bellamente saltato: un noto linguista, il sig. Budai, per un caso fortuito prende l’aereo sbagliato e si ritrova in una città sterminata, affollata all’inverosimile e i cui abitanti parlano una lingua a lui incomprensibile.

Ora, se la stessa cosa dovesse capitare a me che di lingue ne parlo a stento due e ne capisco sì e no tre, mi preoccuperei immediatamente: immaginavo che il sig. Budai, da esimio conoscitore di almeno una decina di idiomi, dopo il comprensibile smarrimento iniziale si sarebbe messo di buona lena a interpretare questa nuova lingua, arrivando poi a padroneggiarla, farsi capire, comprare un biglietto di ritorno, salutare tutti e tornare a casa.

Il chiarissimo prof. Budai come me l'ero immaginato sulla scaletta dell'aereo.

E invece.
Queste due parole sono l’essenza del libro.

E invece nessuno lo capisce, né si sforza di farlo.
E invece di riuscire a decifrare la lingua, Budai si perde d’animo.
E invece di pensare a come scappare dall’inferno in cui è capitato, lui si innamora.

Potrei andare avanti così per almeno quindici righe (e invece…)

Quello che però ha reso quasi insopportabile la lettura di questo libro è stata l’assenza di ogni empatia per il prof. Budai. Per quanto mi sia sforzato, non sono riuscito a entrare in sintonia con il poliglotta sperduto nella città senza nome.

E in più (spoiler alert) l’unica cosa che mi ha spinto a leggere fino in fondo Epepe, ossia la curiosità di sapere quale fosse questa città e come il professore sarebbe riuscito a fuggirne, non viene soddisfatta. 
Lui, semplicemente, trova un fiumiciattolo e decide di seguirlo fino al mare, dove spera di trovare una nave che lo condurrà a casa. 
E mi hai fatto leggere 300 pagine per questo?

È tempo di votazione: 5. Senza appello.


sabato 21 novembre 2015

Niccolò Ammaniti: Anna

La copertina del libro

Per essere un blog che dovrebbe parlare di giochi, fumetti, libri e cinema ultimamente sono stato abbastanza monotematico: l’ossessione 007 ha occupato tutto lo spazio possibile, finendo per soffocare il resto (e non ho ancora comprato Fallout 4… in quel caso sì che diventerò un eremita!).

Prometto almeno un argomento diverso a settimana, d’ora in poi (tanto potrò sempre dire che erano promesse da marinaio).

Per cominciare, ho deciso di prendermi una pausa dal cinema e parlarvi di un libro che ho finito qualche giorno fa: Anna, di Niccolò Ammaniti.

Parto con la consueta confessione: sono un fan di Ammaniti, del suo stile e delle sue storie. Mi sono quasi commosso alla fine di Ti prendo e ti porto via e Fango è nella top ten delle mie raccolte di racconti. 
E quindi avete già capito dove andrà a parare questa recensione.

Anna mi ha subito attirato, a differenza di un paio dei titoli più recenti di Ammaniti: sarà per l’ambientazione a me cara (l’anno scorso ho trascorso le vacanze tra Castellamare del Golfo e Trapani), sarà perché basta scrivere in quarta di copertina post apocalittico e/o contagio mortale per convincermi all’80% a comprare un libro, sarà perché ho sempre avuto l’idea che un personaggio adolescente potesse dare un punto di vista diverso sulle storie… la faccio breve, l’ho divorato.

Uno di quei libri scritti bene, con i capitoli così brevi che ogni volta prima di spegnere la luce ti dici “leggo solo il prossimo” e ti ritrovi la mattina dopo, in ufficio, con pochissime ore di sonno alle spalle.

La storia è semplice e proprio per questo efficace: una piaga stermina tutti gli adulti (Della Sicilia? D’Italia? Del mondo? Non ci è dato saperlo) e i pochi bambini rimasti si organizzano come meglio possono.
Il libro segue Anna e il fratello minore Astor: prima in una casa deserta, la loro, diventata il fortino in cui sopravvivere e poi in un viaggio attraverso la Sicilia, verso il continente.

Alcuni passaggi del libro (la scena in casa del padre, ad esempio) dimostrano in maniera lampante la maturazione necessaria alla sopravvivenza che questa ragazzina è costretta a compiere; altre, invece, l’entusiasmo dell’adolescenza e la scoperta di nuovi orizzonti (questa scena non ve la dico, sennò vi rovino una bellissima parte del libro).

Anna è un bellissimo personaggio: completo, sfaccettato e divertente. Mi chiedo come sia stato scriverlo, per Ammaniti. 
Astor, il fratellino, l’avrei preso a ceffoni dopo i primi capitoli, invece; recupera un minimo di punti solo verso la fine del libro.

Non credo ci sia bisogno di voti, la recensione di questo libro parla da sé.


Quello che non dice è che vorrei tanto leggerne un altro.

mercoledì 11 novembre 2015

E alla fine arrivò Spectre

Alla voce "dovevamo farlo".

Devo ricordarmi di maledire le aspettative, uno di questi giorni.
Perché nelle ultime settimane non ho fatto che nutrirmi di anticipazioni e preparare il terreno per l’ultimo, definitivo film di James Bond. E quando è arrivato, non poteva che essere deludente.
Non in maniera catastrofica, tranquilli.

Ci sono inseguimenti? Sì, a bizzeffe: a piedi e in macchina (in una Roma deserta tranne che per una cinquecento celeste).

Ci sono sparatorie e morti ammazzati? Più di quanti possiate contare.

Ci sono le donne? Di tutti i tipi previsti dalla saga: donne che assistono Bond, donne che cadono ai suoi piedi, donne del passato che lo tormentano e donne del futuro che leniranno il suo dolore.

C’è il tormentato rapporto con l’autorità? Hai voglia! Anche perché il governo inglese prova a mettere un piccolo burocrate a capo dell’MI6 (qualcuno più in alto di M? E annamo!)

C’è l’agente segreto più famoso del mondo? Alla grande, strizzato nei completi più eleganti che possiate immaginare e a suo agio in ogni situazione.

La continuity, inoltre, subisce una brusca accelerata: i fili dei cattivi si collegano sotto un’unica organizzazione – la Spectre del titolo, appunto –, James Bond si stanca di quella vitaccia a base di Martini e cazzotti e se ne va in pensione e tutti vissero felici e contenti.

E allora perché faccio tanto lo schizzinoso?

Perché se gli ultimi film di James Bond fossero una serie tv, Spectre sarebbe la stagione che i produttori hanno insistito ad aggiungere per far soldi e che ha deluso i fan (almeno, ha deluso questo fan).

Perché ci sono almeno un paio di buchi di sceneggiatura madornali. Tipo: quand’è che Bond ha capito il nome del boss della Spectre? No, perché, nel giro di una scena, siamo passati da non conoscerne manco il volto a cercarne il nome sui database di tutte le polizie del mondo.

Perché ai cattivi piacciono ancora gli spiegoni? Non possono sparare e basta?

Cosa mi è piaciuto di Spectre?
Trovare un Bond sempre impeccabile e irresistibile (sia per i nemici che per le donne).
Aver dato più spazio alla sezione gadget (il mitico Q). Si vede che i focus group su Skyfall hanno evidenziato un notevole gradimento del pubblico.
La scena con la Bellucci in bustino e calze a rete. E vabbè, concedetemelo.
L’interpretazione di Waltz, coerente col personaggio.

Cosa mi è piaciuto meno?
Il personaggio di Waltz, troppo poco genio e cinico. Uno che è arrivato a capo della Spectre dovrebbe avere più… più cazzimma, si direbbe dalle mie parti.
Lo svolgimento delle indagini di Bond: mai che una pista si dimostri sbagliata, mai che un’intuizione lo porti fuori strada. Lui coglie al volo un indizio, ci si butta a capofitto e arriva al nodo fondamentale dell’indagine. Questo, a onor del vero, non è un problema solo di Spectre ma una delle caratteristiche di tutti i film di Bond. Lui sbaglia pochissimo e quindi va bene così.

Cosa non mi è piaciuto per niente?
Non aver capito com’è che Bond non ricordava di aver già conosciuto Blofeld e di averci vissuto insieme come un fratello per ben due anni. Due anni!
La sigla di apertura: dopo quel piccolo capolavoro che c'era in Skyfall, qua hanno veramente toppato.
L’atteggiamento di Max Denbigh/C che grida lontano un miglio – fin dalla prima apparizione – “Sono uno dei cattivi, sono uno dei cattivi!”.

Voto finale? Solo 6 e ½, non l'8 pieno che mi aspettavo (maledette aspettative!)

E alla fine di questa magnifica ossessione bondiana, posso anche fare la mia personale classifica:
1) Casino Royale
2) Skyfall
3) Spectre
4) Quantum Of Solace

domenica 8 novembre 2015

In attesa di Spectre, Skyfall.

James Bond

E così, sono arrivato alla fine del cerchio. Manca solo Spectre e poi il grande affresco di James Bond sarà completo. 
Daniel Craig insieme Martin Campbell (Casino Royale), Marc Forster (Quantum of Solace) e un tale Sam Mendes (Skyfall e Spectre) hanno tratteggiato l’ultima parabola della spia più famosa del Regno Unito (e del mondo, mi sa!).

La storia di 007, così come è stata interpretata da Daniel Craig, è stata, a tutti gli effetti, appunto una parabola. Questo concetto, però, me lo tengo buono fino alla visione di Spectre, ché non voglio andare fuori tema.

Oggi si parla di Skyfall. Spoiler alert, sia chiaro.

Il film ha una caratteristica fondamentale, su cui si basano molte scelte legate alla storia: è contemporaneamente di rottura e di conferma rispetto alla continuity della saga.

La rottura si manifesta nell'antagonista di Bond: non si parla più di questa fantomatica organizzazione presente ovunque ma di un solo uomo, mosso da interessi personali (la vendetta) invece che dalla sete di potere. Quest’uomo, Raoul Silva, è interpretato da Javier Bardem, sempre più a suo agio nella parte dello psicopatico con una morale distorta.
Una personcina equilibrata
La conferma, invece, è facile trovarla negli aspetti fondanti la saga.

M finalmente si fida di Bond: nonostante all'occorrenza lo sacrifichi per un bene superiore, durante il film gli affida missioni delicatissime (recuperare la lista di tutti gli agenti Nato infiltrati nelle organizzazioni terroristiche), lo reintegra in servizio anche quando l’agente non ha superato i test e – attenzione, attenzione! – prima gli rende conto di alcune sue scelte passate e poi mette la sua vita nelle mani di lui. 
Più fiducia di così, si muore (letteralmente!)

Le bond girl di turno fanno esattamente quello che ci si aspetta da loro: Eve Moneypenny (anche lei agente dell’MI6) lo accompagna in missione, gli lancia la pistola e gli porta i messaggi. Severine si fa sedurre in due minuti e muore poco dopo, risultando utile solo per raggiungere Silva (oltre che per il piacere di 007, non ce lo dimentichiamo!)

Cosa ho scoperto di nuovo e quali sono le chicche di Skyfall?

Il tormentato rapporto con l’autorità non è appannaggio esclusivo di Bond, anche M né è affetta. Sarà una competenza fondamentale per lavorare nell’MI6, evidentemente.

La primissima scena è una strizzatina d’occhio ai fan di Bond: Craig entra in scena nella classica posa all'interno del mirino e la musica accenna – per un secondo scarso – il tema dei film. È un po’ come se il regista avesse voluto aprire il sipario, con questa chicca.

James Bond
Alla voce: entrate in scena da manuale
James Bond non è immortale né infaticabile: in Skyfall lo vediamo più volte ferito, con le occhiaie, spezzato e dolorante. Tra Quantum of Solace e Skyfall, l’agente segreto salta a piè pari il momento della maturità, passando direttamente da essere l’agente ancora da testare a essere quello ormai navigato, di cui ci si può fidare ma che non ha più voglia di combattere. 
Per carità, Bond si rialza sempre – lo sappiamo tutti – ma vederlo logorato aggiunge un tocco di tensione che male non fa, anzi.

Finalmente compare il reparto Q, quello dei gadget: il confronto tra vecchio e nuovo modo di fare la spia, tra chi mena le mani e chi le usa per battere sulla tastiera del pc (tema che ripercorre l’interno film) esplode col viso pulito e le espressioni spaurite di Ben Wishaw.

La sigla stavolta si supera, sia per il comparto grafico che musicale: Adele canta Skyfall con voce sexy e potente, accompagnando un Bond che tutti crediamo morente benché siano passati appena dieci minuti dall’inizio del film.

Nonostante tutto questo, Skyfall è il più in basso nella lista dei tre e si becca solo un 6 e ½.
Segretamente spero che Spectre arrivi almeno a 8.

Ultima cosa: qualcuno spieghi agli eroi dei film che quando un cattivo si fa catturare facilmente, ha sempre un diabolico e precisissimo piano di riserva. O no, Batman?

venerdì 6 novembre 2015

Mercoledì cinema, giovedì recensione (in ritardo). The walk


Quando è il mio turno di scegliere il film sono sempre elettrizzato: passo dalla voglia di scegliere quell’horror particolare perché non posso non dargli una possibilità alla sottile goduria di portare gli amici cinefili a vedere proprio quel film supernerd che non piacerà a nessuno se non a me. 
Pillole di rivalsa sui film francesi, insomma.

I film che ho scelto finora non mi hanno mai deluso, al massimo hanno fatto annoiare gli altri componenti del circolino ma… mia la serata, mio il film. 
E se non vi sta bene, me ne vado col pallone. Questa è la regola su cui si fonda il circolino.

Mercoledì sera ho scelto The Walk, forte del nome di Robert Zemeckis e di una storia (vera) solida alle spalle.
La delusione è arrivata come un treno, stordendomi sulla poltrona.

Il personaggio di Philippe Petit non riscuote né simpatia né antipatia. È piatto e regolare come il suo orrendo taglio di capelli.

Per gli effetti speciali avranno speso 10 euro in tutto. Ho visto filmati su youtube girati meglio, ma di molto.

La storia è solida di suo ma Zemeckis è stato capace di renderla noiosa e per niente epica (questo tizio ha attraversato le torri gemelle su un cavo d’acciaio! Se non è epica questa impresa, ditemi voi cosa lo è)

Le musiche di Alan Silvestri (grande compositore di colonne sonore, tra cui quelle per la trilogia di Ritorno al futuro, Cast Away e Forrest Gump) sono loffie. E giuro che mi sono sforzato di trovare un termine più adatto.

L’unica scena degna di nota, per me che soffro di vertigini, è quella in cui uno degli assistenti di Petit – con il sacro terrore delle altezze – viene costretto dagli eventi a scavalcare il parapetto della torre nord (417 metri d’altezza, mica pizza e fichi) e tendere il cavo per il funambolo.

Roba che io avrei fatto questa faccia qua

e me ne sarei andato a bere una cosa.

Voto? 5 ½ ma solo perché sei Zemeckis e so che sei bravo.

martedì 3 novembre 2015

In attesa di Spectre, Quantum of Solace

Il poster del film

Vedere in sequenza ravvicinata una serie di film collegati tra loro fornisce spunti molto interessanti: ci si può soffermare sulla macrostoria (la continuity che io amo tanto) e vengono a galla più facilmente tutti i rimandi che gli autori – e i registi – fanno nel corso delle storie.

Chiunque di voi è stato un amante della trilogia del Signore degli anelli conosce molto bene la differenza tra aspettare un anno tra un film e l’altro e vederli in sequenza (tra l’altro, è una delle maratone cinematografiche più belle che possiate fare, se amate il genere e non vi manca il tempo).

Come avrete capito dal post precedente o dal titolo di questo qua, per la prima volta mi sono dedicato al binge watching dei film di James Bond (quelli con Daniel Craig): lascio passare pochi giorni se non poche ore tra un capitolo e l’altro e mi sono trovato ad associarli a una serie televisiva.
In effetti, se il primo capitolo (Casino Royale) è servito a presentare il protagonista, accennare all'antagonista e buttare giù le basi delle future storie, il secondo approfondisce e permette l’evoluzione di alcuni aspetti.

Andiamo con ordine.

La prima scena di Quantum of Solace, tanto per farci capire che tipo di film è e chi è il protagonista, è un inseguimento in auto su una strada talmente stretta che io farei fatica a guardare oltre la macchina che mi precede. 
Bond invece sorpassa, spara, guarda male il nemico e schiva camion come se non ci fosse un domani. 
Indossando un completo, eh, mica la tuta.

Dopo 2 minuti, quindi, il tono del film si è capito. E infatti gli inseguimenti, nel corso delle successive due ore, saranno ben 4: uno in auto, uno a piedi, uno in barca e uno anche in aereo. 
Non avrebbe stonato uno in segway ma mi sa che sarebbe stato noioso.

Sai che scena, però?
La continuity che lega questo film agli altri della serie non tarda a farsi vedere.
   
  • Quantum of Solace riprende esattamente alla fine di Casino Royale: il prigioniero di Bond, nella scena iniziale, è il cattivo cazzuto del primo.
  • L’organizzazione dei cattivi (ancora non è mai stata nominata) comincia a delinearsi meglio: è dappertutto, destituisce governi, tratta con dittatori… insomma, è una piovra innominata.
  • L’MI6 fa finalmente vedere i muscoli: laboratori costosissimi, software di riconoscimento facciale, database enormi, cellulari traccianti, ecc.
  • Il rapporto tra M e James Bond evolve, evolve, evolve: prima lei non si fida di lui e lo tiene sott’occhio, poi lui scappa, quindi lei gli cancella le carte di credito e poi gli fa una scenata… in poche parole un divorzio all'italiana in salsa british.
  • Infine, la croce e delizia di ogni Bond: le donne. In questo film sono presenti in tre: Vesper, ovvero l’ossessione che sembra guidare le azioni dell’agente segreto; Fields, la donna oggetto di turno che si scioglie alla vista di una suite e, infine, Camille Montes. Solo quest’ultima avrà una parvenza di rapporto alla pari con 007. Non ho capito se perché li accomunava la vendetta o perché non c’aveva abbastanza tette.

Prima delle votazioni di rito, un paio di chicche senza spoiler che mi sono gustato: la scena all’opera per come è stata pensata e costruita e la retorica secondo cui l’MI6 combatte i criminali con cui la Cia va a nozze. 
God save the Queen.

Quantum of Solace si prende un 7 -. Il meno te lo becchi perché sei stato sotto le aspettative.

Prima di passare al prossimo, un suggerimento per 007: ma quando imparerai a non ammazzare i nemici che insegui? E grazie che non sapete ancora niente della Spectre. Minchia, le basi!

giovedì 29 ottobre 2015

In attesa di Spectre, Casino Royale.

La locandina del film

Lo premetto da subito: sono un fan di alcuni aspetti della saga di James Bond (non di tutto o di tutti gli attori che l’hanno interpretato, sia chiaro).
Questa predisposizione nasce, molto probabilmente, nella mia infanzia: ricordo ancora che guardavo i film di James Bond – quelli con Sean Connery – insieme a mio padre, e già allora impazzivo per i gadget, sia dei buoni che dei cattivi, e per alcuni personaggi.

La Aston Martin con il sedile a espulsione, l’olio che esce da sotto al telaio, il cappello/lama rotante del factotum muto di Goldfinger, i denti d’acciaio dello Squalo, sono stati oggetti su cui ho fantasticato fin da subito.

Sarà anche per questo bellissimo ricordo d’infanzia che per me James Bond è sempre stata quella simpatica canaglia di Sean Connery.
Ho sempre snobbato gli attori che hanno interpretato, dopo Connery, la famosa spia di Fleming: Roger Moore aveva poco mordente, Timothy Dalton la faccia troppo buona e Pierce Brosnan nel mio immaginario è sempre stato solo il dottore del Tagliaerbe.

Poi è arrivato Daniel Craig.

E James Bond è cambiato.

Nella mia testa Daniel Craig è riuscito a scalzare Sean Connery perché i personaggi che interpretano sono profondamente diversi. 

Certo, si parla sempre di un super agente segreto capace di menare le mani su una moto in corsa su un precipizio mentre bacia una donna e beve un martini (agitato non mescolato), però:

- Il nuovo Bond è in realtà il primo Bond, quello che ha appena avuto la licenza di uccidere (i famosi 
due zeri).

- Sta ancora crescendo nel rapporto con le donne.

- Deve ancora approfondire la relazione con l’autorità (nei dialoghi con M notiamo la sua rozzezza: mentre lei – una grandiosa Judi Dench – dispensa perle di saggezza e consigli di diplomazia, lui fa il figo).

- I suoi nemici sono ancora poco chiari (almeno nei primi due film).

Queste caratteristiche, unite a una grande dose di bravura, hanno fatto vincere a Craig il premio di secondo miglior Bond nella storia del cinema del mio personale palmarès.

Passando ai film, partiamo dal primo di questa nuova stagione: Casino Royale.
Come sempre su questo blog niente trama. Se ne avete bisogno, la trovate qua, insieme al trailer.

E vabbè, lo scrivo: è una bomba. 
Dai titoli di coda (sempre curati nei film di Bond ma con la nuova stagione hanno fatto davvero un salto in avanti) passando per la prima bond girl trattata come un oggetto, fino alla delusione d’amore che renderà il suo cuore duro come una roccia. 
Una tragedia da lacrime napulitane, come direbbe Doc Manhattan.

In più, la rete di nemici che fa da contraltare all’MI6, comincia a farsi vedere. Piano piano: qualche riferimento e un supercattivo cazzuto, niente di più. 
Per un fan della continuity come me, questa è praticamente la dose che il pusher ti regala per costringerti a comprare la roba una volta che sei diventato un tossico.

È tempo di votazione e Casino Royale si prende 7 +. 
Il più è per la buona volontà, ché sei bravo ma puoi fare ancora meglio.

Da oggi parte il conto alla rovescia fino alla visione di Spectre. Se riesco, faccio un post su ogni film.

E se siete già preoccupati dei prossimi post a tema bondiano, pensate alla mia metà che nelle prossime settimane dovrà vedere insieme a me tutti i film. Quindi niente lamentele e buona lettura.

mercoledì 21 ottobre 2015

La recensione arriva prima del tempo. BTTF Day


Domenica ero a pranzo con la mia famiglia e ho scoperto, con grande sorpresa e sommo giubilo, che i miei genitori – all’epoca ancora fidanzati – hanno portato i miei zii – all’epoca tutti pischelletti – a vedere il primo film di Guerre Stellari.
A distanza di quasi quarant’anni tutti ricordavano quel momento, segno che in qualche modo si era impresso a fuoco nella loro memoria.

Io mi emoziono ogni volta che leggo le parole “Tanto tempo fa, in una galassia lontana…”, figuriamoci averle viste su uno schermo cinematografico.

Si vabbè, bello l’amarcord ma che c’entra con Ritorno al futuro?

C’entra che fino a qualche tempo fa, l’unica cosa che mi mancava della trilogia di Robert Zemeckis era averla vista al cinema.

Ora, non solo ho visto al cinema il primo episodio nel 2013 ma ho avuto anche la possibilità di partecipare a una maratona col primo e il secondo episodio, mercoledì 21 ottobre 2015.
Se sei arrivato a leggere fin qui vuol dire che sai di cosa sto parlando e sai cosa significa questa data per noi fan della saga di Marty e Doc. 
Se invece non lo sai e sei capitato qui per caso, apri Google immagini e cerca questo:

Scoprirai cos’è un flusso canalizzatore e come l’idea venne a Doc dopo esser scivolato in bagno. 
Vedrai il futuro immaginato trent’anni fa e comincerai a pensare quadrimensionalmente.

Oggi tutto il mondo dell’internet parla di Ritorno al futuro. 
E quando dico tutto il mondo intendo letteralmente, non come quando Grillo dice che la rete si è espressa e in realtà hanno votato 3 amici al bar.

In giro si trova di tutto sui tre film: trama, bloopers, gadget, aneddoti, cosplayer e perfino un filmato secondo cui il primo Ritorno al futuro ha predetto l’11 settembre. 
Non scherzo, lo trovate qui.

Il post di oggi serve innanzitutto a me, a mettere in ordine i tanti significati che questa trilogia ha avuto per Felice adolescente, prima, e per Felice un po’ più grande, dopo. 
Se hai visto e rivisto i film fino a diventarne un appassionato, magari molte delle cose che leggerai le avrai vissute tu stesso.

Se oggi, a trent’anni suonati, sono un appassionato delle teorie sui viaggi nel tempo e sono riuscito a vedere anche Primer, lo devo a questa trilogia.

Se la fantascienza è il mio genere preferito, lo devo a Doc Brown e alle sue teorie.

Se ho provato ad andare sullo skate (fallendo miseramente) quando avevo 10 anni, lo devo a Marty. Anzi a Biff, da cui anche io avrei voluto scappare.

Ho scoperto l’influenza degli spaghetti western nel cinema mondiale col terzo episodio: prima di Clint Eastwood il trucco del metallo sul petto l’ho visto fare a Marty (anzi al sig. Eastwood, in quel caso).

Se ne parlo ancora con i miei fratelli in maniera appassionata e se, nelle serate alcoliche, ci divertiamo a citarne le battute insieme a un paio di amici grandi fan, lo devo al potere di creare storie del caro Zemeckis (e del sempre dimenticato Bob Gale).

E quindi, alla fine, posso affermare che l'universo di Guerre Stellari è una meraviglia, i personaggi del Signore degli anelli sono affascinanti ma per me, nell’olimpo delle trilogie, quella di Ritorno al futuro deve avere un posto da protagonista.

P.S.
Se per caso questa recensione del giovedì (anticipata per la grande occasione) ti ha fatto venire voglia di vedere i film, non troverai posto al cinema, te l’assicuro. 
Prendi il cofanetto blu ray della trilogia, siediti sul divano per quelle sei ore buone e ripeti con me: Grande Giove!


lunedì 19 ottobre 2015

L'arte della guerra di Deadpool

La copertina del volume

Ho scoperto il personaggio di Deadpool come conseguenza della mia passione per la saga Marvel Zombie (il primo volume, che ha dato origine a tutto, l’ha scritto un certo Robert Kirkman).
Delle varie uscite conseguenti a Marvel Zombie, una mi ha colpito particolarmente per la follia del suo personaggio, le scene metafumettistiche e l’umorismo macabro: In viaggio con la testa

Ma non è di questa che parliamo oggi. 

Né dei Deadpool Corps, della serie con Cable, di quella Deadpool uccide (I Classici, Deadpool, l’Universo Marvel)… insomma, diciamo che ho seguito il mercenario chiacchierone con particolare attenzione e sono diventato, almeno per il personaggio in questione, il prototipo del Marvel Zombie che casca in ogni operazione commerciale della casa delle idee.

La faccio breve, promesso: oggi parliamo della rilettura di Deadpool de L’arte della guerra di Sun Tzu.

Il pretesto da cui parte tutto è l’incontro (o meglio, lo scontro) tra Deadpool e lo stesso Sun Tzu: senza spiegare al lettore come sia possibile, il mercenario si ritrova nella Cina del V secolo dove ruba i rotoli di bambù su cui è scritta la famosa opera. 
Tornato nel mondo contemporaneo, Deadpool realizza che l’unico modo per riuscire a vendere il libro a una casa editrice è quello di far scoppiare una guerra e usare l’antico manoscritto come manuale di sopravvivenza.

Dopo la premessa, il volume scorre tra gustosi riferimenti cinematografici e rimandi al mondo reale come se non ci fosse un domani. 
Più la solita dose di sangue, mutilazioni e cambiamenti di bandiera.

[Spoiler alert]

Più della trama, mi preme segnalarvi qualche chicca che mi è rimasta impressa:
- Deadpool che sceglie tra le varie versioni di Loki (Loki è un bambino? Di chi è questa grande idea? Loki donna? Mi prendete in giro? Ma come diavolo… ! ).
- Deadpool che recita le massime di Sun-Tzu o scrive sul portatile mentre intorno a lui infuria la battaglia.
- Loki e Skurg che commentano le didascalie delle vignette.
- I curatori di Deadpool che alla fine sono gli unici a voler comprare la versione rivista e corretta de L’Arte della guerra (e che alla fine pubblicano, di conseguenza, l’albo Marvel)

[Fine spoiler]

Un bel volume, quindi, con gli ottimi disegni di ScottKoblish e i colori di Val Staples (stupende le copertine dei singoli capitoli che rimandano all’arte cinese antica), che non può mancare nella libreria di ogni buon fanatico della Marvel.
Tanto per dirvi fino a dove si spingono i fan



giovedì 15 ottobre 2015

Mercoledì cinema, giovedì recensione. Suburra

Locandina del film
La locandina del film

Ieri sera, prima di andare al cinema, mi sono divertito a fare l’originale con la battuta sul titolo del film e “per fortuna che si sono ricordati la U”. 
Nel frattempo, il lato colto e quello romano del circolino del mercoledicinema mi hanno fatto notare che Suburra è non solo una via di Roma ma che anticamente era un quartiere particolarmente popoloso, miserabile e malsano.

Sollima si è spinto in questo luogo divenuto sinonimo di marcio, risparmiandoci davvero poco: la macchina da presa si immerge nei peggiori liquami della società moderna, scavando nei legami tra la politica, i fascisti, la microcriminalità romana e quel sottobosco di parassiti che sopravvivono intorno a questo giro.

La tensione si sente per tutte le due ore del film, complice anche la colonna sonora fatta di musica elettronica bassa e potente (gli autori sono francesi, gli M83).

Io sono uscito esaltato dalla visione, con un paio di conferme e qualche bella sorpresa.

Sollima si conferma un ottimo regista per questo genere di storie: i colori del film sapevano di palude e le inquadrature raramente si sono allargate tanto da permettere allo spettatore di respirare.

L’altra conferma è De Cataldo e la sua meravigliosa capacità di scrivere e descrivere la zona grigia tra legale e illegale; se oggi sapete (anche vagamente) cos’è stata e quali erano i legami della banda della Magliana lo dovete principalmente a lui. Che poi molti non hanno mai approfondito l’argomento o non si sono mai resi conto di quanto di vero ci fosse nella finzione e viceversa sono un altro paio di maniche.

Vabbè, Elio Germano è sempre bravo.

Vabbè, Favino si mangia le parole.

Passando alle sorprese, la prima, almeno per me, è stato Claudio Amendola: complice il suo personaggio a cui mi sono affezionato, la sua recitazione mi è parsa credibile e sensata.

L’altra bella sorpresa sono gli attori praticamente sconosciuti che interpretano la fauna di criminali che nel film popola i sobborghi di Roma.
Alessandro Borghi, numero 8: non deve essere stato facile rendere un giovane criminale con un complesso di inferiorità nei confronti del padre. Lui ci è riuscito. È un po’ il Ciruzzo l’immortale di Suburra.
Adamo Dionisi, Manfredi Anacleti: avete presente quel personaggio talmente viscido che vorreste vederlo finire male dalla prima inquadratura? Ecco, è lui.
Greta Scarano, Viola: come fa la grezzaccia lei, nessuna.

Vabbè, mi sono dilungato pure troppo, è tempo di votazione: 9 pieno.

Ultimo appunto: quanto sono inquietanti i riferimenti ai Casamonica, ai legami tra lo Ior e la criminalità e al sacro terrore che solo le famiglie possono incutere?


Vi confesso che quando vedo film così, oltre a esserne appagato come cinefilo, covo la segreta speranza che gli altri spettatori vogliano correre a informarsi e a scandalizzarsi. 

Lasciatemi sperare. 

giovedì 8 ottobre 2015

Mercoledì cinema, giovedì recensione. Dove eravamo rimasti

Ricki Rendazzo, ovvero la Patti Smith del baretto sotto casa

Mai titolo fu più azzeccato per ricominciare il circolino del mercoledì cinema.

Avremmo potuto essere i protagonisti di un romanzo di Stephen King che dopo 15 anni si ritrovano per riprendere le vecchie abitudini e quello sarebbe stato il titolo perfetto del nostro film personale.

E invece i protagonisti della pellicola (che termine desueto, eh?) sono Meryl Streep (formidabile, che ve lo dico a fare) e Kevin Kline (in una splendida forma attoriale e fisica, per avere quasi 70 anni).

Il film è bello? Non esageriamo. Ottime prove d’attore (ed è uno dei motivi per cui vai a vedere un film di questo genere) con trama leggera e qualche momento telefonato, nonostante la sceneggiatrice fosse Diablo Cody.

Mi ha ricordato il grande freddo, in qualche scena… ma forse era solo la sensazione (espressa benissimo da altri componenti del circolino) che il film avesse un ritmo e un montaggio molto anni ’90. 
Se sei cresciuto negli anni ’90 sai cosa intendo, sennò vai a recuperarti i fondamentali. 
E Jonathan Demme qualcuno di questi fondamentali li ha girati (Il silenzio degli innocenti e Philadephia, mica pizza e fichi).

Insomma, per fortuna la Streep canta da dio, recita meglio e sa calarsi in ogni ruolo possibile. Kevin Kline idem (tranne per il canto ma semplicemente perché non si sono scene in cui ha dovuto sforzare la sua ugola).

Voto: 6 complessivo. 8 ½ ai due attori già citati.

Per concludere, l’aspetto più bello di ieri è stato risedersi al cinema sapendo che abbiamo ripreso una piacevole abitudine.

La cosa brutta per voi è che vi romperò i coglioni di nuovo con le mie recensioni.

venerdì 25 settembre 2015

Oggi si parla di Cormac McCarthy

Il faccione di McCarthy

E sapete perché? 
Perché qualche giorno fa sono tornato dalle vacanze (per la prima volta settembrine) e – come ho detto a un amico prima di partire – questa estate è stata all’insegna di Cormac McCarthy.

Il mio kindle aveva in memoria, tra gli altri: 
- La strada
- Meridiano di sangue
- La trilogia della frontiera (Cavalli selvaggi, Oltre il confine e Città di pianura)

Li ho letti tutti tranne Città di pianura e adesso vi racconto come li ho trovati e perché mi sono (temporaneamente) fermato. Tranquilli, sarò breve, come promesso e premessa di questo blog.

La strada: dimenticate il film. Il rapporto tra un padre e il figlio che si aggirano in un mondo che sta morendo. Non racconta perché, racconta solo il disperato bisogno di sopravvivere e far sopravivvere. Lo stile è essenziale, le parole calibrate e io in questo libro ho annusato la capacità di McCarthy di descrivere i paesaggi e le emozioni con delle frasi che avrei voluto incorniciarmi, per tanto erano belle. Voto: 8

Meridiano di sangue: a cavallo tra gli Usa e il Messico, nella prima metà del 1800 si aggirano The Kid, il giudice e una masnada di brutali cacciatori di scalpi. La violenza la fa da padrona e io ho visto gli immensi spazi del deserto americano tratteggiati con poche parole. Le riflessioni del giudice, poi, avevano un che di mistico. Voto: 8 e ½

Cavalli selvaggi e Oltre il confine: i primi due della trilogia della frontiera. Sbagliando, ero convinto che la trilogia fosse un’unica storia e invece – almeno per i primi due romanzi – in comune i libri hanno solo il periodo (gli anni ’40 del 1900), l’ambientazione (Messico e stati di frontiera, ovviamente) e una certa difficoltà dei protagonisti ad adattarsi a un mondo che cominciava a essere veloce quando loro avrebbero solo voluto fare i cowboy. In entrambi i libri, i protagonisti si rifugiano (non necessariamente perché scappano da qualcosa) in Messico; lì troveranno violenza, sopraffazione, storie di rivoluzione e dolore. Confesso che a metà di Oltre il confine ero stanco di cavalli e storie tristi sul Messico. Ho mollato alla fine, ripromettendomi di leggere al più presto Città di pianura (non posso mica mollare un autore così, eh). Voti: rispettivamente 7 e 6 e ½

Tanto per essere coerente, tornato a casa ho comprato Non è un paese per vecchi.


La violenza e i paesaggi allucinati non ti mollano così facilmente, si vede.