giovedì 29 ottobre 2015

In attesa di Spectre, Casino Royale.

La locandina del film

Lo premetto da subito: sono un fan di alcuni aspetti della saga di James Bond (non di tutto o di tutti gli attori che l’hanno interpretato, sia chiaro).
Questa predisposizione nasce, molto probabilmente, nella mia infanzia: ricordo ancora che guardavo i film di James Bond – quelli con Sean Connery – insieme a mio padre, e già allora impazzivo per i gadget, sia dei buoni che dei cattivi, e per alcuni personaggi.

La Aston Martin con il sedile a espulsione, l’olio che esce da sotto al telaio, il cappello/lama rotante del factotum muto di Goldfinger, i denti d’acciaio dello Squalo, sono stati oggetti su cui ho fantasticato fin da subito.

Sarà anche per questo bellissimo ricordo d’infanzia che per me James Bond è sempre stata quella simpatica canaglia di Sean Connery.
Ho sempre snobbato gli attori che hanno interpretato, dopo Connery, la famosa spia di Fleming: Roger Moore aveva poco mordente, Timothy Dalton la faccia troppo buona e Pierce Brosnan nel mio immaginario è sempre stato solo il dottore del Tagliaerbe.

Poi è arrivato Daniel Craig.

E James Bond è cambiato.

Nella mia testa Daniel Craig è riuscito a scalzare Sean Connery perché i personaggi che interpretano sono profondamente diversi. 

Certo, si parla sempre di un super agente segreto capace di menare le mani su una moto in corsa su un precipizio mentre bacia una donna e beve un martini (agitato non mescolato), però:

- Il nuovo Bond è in realtà il primo Bond, quello che ha appena avuto la licenza di uccidere (i famosi 
due zeri).

- Sta ancora crescendo nel rapporto con le donne.

- Deve ancora approfondire la relazione con l’autorità (nei dialoghi con M notiamo la sua rozzezza: mentre lei – una grandiosa Judi Dench – dispensa perle di saggezza e consigli di diplomazia, lui fa il figo).

- I suoi nemici sono ancora poco chiari (almeno nei primi due film).

Queste caratteristiche, unite a una grande dose di bravura, hanno fatto vincere a Craig il premio di secondo miglior Bond nella storia del cinema del mio personale palmarès.

Passando ai film, partiamo dal primo di questa nuova stagione: Casino Royale.
Come sempre su questo blog niente trama. Se ne avete bisogno, la trovate qua, insieme al trailer.

E vabbè, lo scrivo: è una bomba. 
Dai titoli di coda (sempre curati nei film di Bond ma con la nuova stagione hanno fatto davvero un salto in avanti) passando per la prima bond girl trattata come un oggetto, fino alla delusione d’amore che renderà il suo cuore duro come una roccia. 
Una tragedia da lacrime napulitane, come direbbe Doc Manhattan.

In più, la rete di nemici che fa da contraltare all’MI6, comincia a farsi vedere. Piano piano: qualche riferimento e un supercattivo cazzuto, niente di più. 
Per un fan della continuity come me, questa è praticamente la dose che il pusher ti regala per costringerti a comprare la roba una volta che sei diventato un tossico.

È tempo di votazione e Casino Royale si prende 7 +. 
Il più è per la buona volontà, ché sei bravo ma puoi fare ancora meglio.

Da oggi parte il conto alla rovescia fino alla visione di Spectre. Se riesco, faccio un post su ogni film.

E se siete già preoccupati dei prossimi post a tema bondiano, pensate alla mia metà che nelle prossime settimane dovrà vedere insieme a me tutti i film. Quindi niente lamentele e buona lettura.

mercoledì 21 ottobre 2015

La recensione arriva prima del tempo. BTTF Day


Domenica ero a pranzo con la mia famiglia e ho scoperto, con grande sorpresa e sommo giubilo, che i miei genitori – all’epoca ancora fidanzati – hanno portato i miei zii – all’epoca tutti pischelletti – a vedere il primo film di Guerre Stellari.
A distanza di quasi quarant’anni tutti ricordavano quel momento, segno che in qualche modo si era impresso a fuoco nella loro memoria.

Io mi emoziono ogni volta che leggo le parole “Tanto tempo fa, in una galassia lontana…”, figuriamoci averle viste su uno schermo cinematografico.

Si vabbè, bello l’amarcord ma che c’entra con Ritorno al futuro?

C’entra che fino a qualche tempo fa, l’unica cosa che mi mancava della trilogia di Robert Zemeckis era averla vista al cinema.

Ora, non solo ho visto al cinema il primo episodio nel 2013 ma ho avuto anche la possibilità di partecipare a una maratona col primo e il secondo episodio, mercoledì 21 ottobre 2015.
Se sei arrivato a leggere fin qui vuol dire che sai di cosa sto parlando e sai cosa significa questa data per noi fan della saga di Marty e Doc. 
Se invece non lo sai e sei capitato qui per caso, apri Google immagini e cerca questo:

Scoprirai cos’è un flusso canalizzatore e come l’idea venne a Doc dopo esser scivolato in bagno. 
Vedrai il futuro immaginato trent’anni fa e comincerai a pensare quadrimensionalmente.

Oggi tutto il mondo dell’internet parla di Ritorno al futuro. 
E quando dico tutto il mondo intendo letteralmente, non come quando Grillo dice che la rete si è espressa e in realtà hanno votato 3 amici al bar.

In giro si trova di tutto sui tre film: trama, bloopers, gadget, aneddoti, cosplayer e perfino un filmato secondo cui il primo Ritorno al futuro ha predetto l’11 settembre. 
Non scherzo, lo trovate qui.

Il post di oggi serve innanzitutto a me, a mettere in ordine i tanti significati che questa trilogia ha avuto per Felice adolescente, prima, e per Felice un po’ più grande, dopo. 
Se hai visto e rivisto i film fino a diventarne un appassionato, magari molte delle cose che leggerai le avrai vissute tu stesso.

Se oggi, a trent’anni suonati, sono un appassionato delle teorie sui viaggi nel tempo e sono riuscito a vedere anche Primer, lo devo a questa trilogia.

Se la fantascienza è il mio genere preferito, lo devo a Doc Brown e alle sue teorie.

Se ho provato ad andare sullo skate (fallendo miseramente) quando avevo 10 anni, lo devo a Marty. Anzi a Biff, da cui anche io avrei voluto scappare.

Ho scoperto l’influenza degli spaghetti western nel cinema mondiale col terzo episodio: prima di Clint Eastwood il trucco del metallo sul petto l’ho visto fare a Marty (anzi al sig. Eastwood, in quel caso).

Se ne parlo ancora con i miei fratelli in maniera appassionata e se, nelle serate alcoliche, ci divertiamo a citarne le battute insieme a un paio di amici grandi fan, lo devo al potere di creare storie del caro Zemeckis (e del sempre dimenticato Bob Gale).

E quindi, alla fine, posso affermare che l'universo di Guerre Stellari è una meraviglia, i personaggi del Signore degli anelli sono affascinanti ma per me, nell’olimpo delle trilogie, quella di Ritorno al futuro deve avere un posto da protagonista.

P.S.
Se per caso questa recensione del giovedì (anticipata per la grande occasione) ti ha fatto venire voglia di vedere i film, non troverai posto al cinema, te l’assicuro. 
Prendi il cofanetto blu ray della trilogia, siediti sul divano per quelle sei ore buone e ripeti con me: Grande Giove!


lunedì 19 ottobre 2015

L'arte della guerra di Deadpool

La copertina del volume

Ho scoperto il personaggio di Deadpool come conseguenza della mia passione per la saga Marvel Zombie (il primo volume, che ha dato origine a tutto, l’ha scritto un certo Robert Kirkman).
Delle varie uscite conseguenti a Marvel Zombie, una mi ha colpito particolarmente per la follia del suo personaggio, le scene metafumettistiche e l’umorismo macabro: In viaggio con la testa

Ma non è di questa che parliamo oggi. 

Né dei Deadpool Corps, della serie con Cable, di quella Deadpool uccide (I Classici, Deadpool, l’Universo Marvel)… insomma, diciamo che ho seguito il mercenario chiacchierone con particolare attenzione e sono diventato, almeno per il personaggio in questione, il prototipo del Marvel Zombie che casca in ogni operazione commerciale della casa delle idee.

La faccio breve, promesso: oggi parliamo della rilettura di Deadpool de L’arte della guerra di Sun Tzu.

Il pretesto da cui parte tutto è l’incontro (o meglio, lo scontro) tra Deadpool e lo stesso Sun Tzu: senza spiegare al lettore come sia possibile, il mercenario si ritrova nella Cina del V secolo dove ruba i rotoli di bambù su cui è scritta la famosa opera. 
Tornato nel mondo contemporaneo, Deadpool realizza che l’unico modo per riuscire a vendere il libro a una casa editrice è quello di far scoppiare una guerra e usare l’antico manoscritto come manuale di sopravvivenza.

Dopo la premessa, il volume scorre tra gustosi riferimenti cinematografici e rimandi al mondo reale come se non ci fosse un domani. 
Più la solita dose di sangue, mutilazioni e cambiamenti di bandiera.

[Spoiler alert]

Più della trama, mi preme segnalarvi qualche chicca che mi è rimasta impressa:
- Deadpool che sceglie tra le varie versioni di Loki (Loki è un bambino? Di chi è questa grande idea? Loki donna? Mi prendete in giro? Ma come diavolo… ! ).
- Deadpool che recita le massime di Sun-Tzu o scrive sul portatile mentre intorno a lui infuria la battaglia.
- Loki e Skurg che commentano le didascalie delle vignette.
- I curatori di Deadpool che alla fine sono gli unici a voler comprare la versione rivista e corretta de L’Arte della guerra (e che alla fine pubblicano, di conseguenza, l’albo Marvel)

[Fine spoiler]

Un bel volume, quindi, con gli ottimi disegni di ScottKoblish e i colori di Val Staples (stupende le copertine dei singoli capitoli che rimandano all’arte cinese antica), che non può mancare nella libreria di ogni buon fanatico della Marvel.
Tanto per dirvi fino a dove si spingono i fan



giovedì 15 ottobre 2015

Mercoledì cinema, giovedì recensione. Suburra

Locandina del film
La locandina del film

Ieri sera, prima di andare al cinema, mi sono divertito a fare l’originale con la battuta sul titolo del film e “per fortuna che si sono ricordati la U”. 
Nel frattempo, il lato colto e quello romano del circolino del mercoledicinema mi hanno fatto notare che Suburra è non solo una via di Roma ma che anticamente era un quartiere particolarmente popoloso, miserabile e malsano.

Sollima si è spinto in questo luogo divenuto sinonimo di marcio, risparmiandoci davvero poco: la macchina da presa si immerge nei peggiori liquami della società moderna, scavando nei legami tra la politica, i fascisti, la microcriminalità romana e quel sottobosco di parassiti che sopravvivono intorno a questo giro.

La tensione si sente per tutte le due ore del film, complice anche la colonna sonora fatta di musica elettronica bassa e potente (gli autori sono francesi, gli M83).

Io sono uscito esaltato dalla visione, con un paio di conferme e qualche bella sorpresa.

Sollima si conferma un ottimo regista per questo genere di storie: i colori del film sapevano di palude e le inquadrature raramente si sono allargate tanto da permettere allo spettatore di respirare.

L’altra conferma è De Cataldo e la sua meravigliosa capacità di scrivere e descrivere la zona grigia tra legale e illegale; se oggi sapete (anche vagamente) cos’è stata e quali erano i legami della banda della Magliana lo dovete principalmente a lui. Che poi molti non hanno mai approfondito l’argomento o non si sono mai resi conto di quanto di vero ci fosse nella finzione e viceversa sono un altro paio di maniche.

Vabbè, Elio Germano è sempre bravo.

Vabbè, Favino si mangia le parole.

Passando alle sorprese, la prima, almeno per me, è stato Claudio Amendola: complice il suo personaggio a cui mi sono affezionato, la sua recitazione mi è parsa credibile e sensata.

L’altra bella sorpresa sono gli attori praticamente sconosciuti che interpretano la fauna di criminali che nel film popola i sobborghi di Roma.
Alessandro Borghi, numero 8: non deve essere stato facile rendere un giovane criminale con un complesso di inferiorità nei confronti del padre. Lui ci è riuscito. È un po’ il Ciruzzo l’immortale di Suburra.
Adamo Dionisi, Manfredi Anacleti: avete presente quel personaggio talmente viscido che vorreste vederlo finire male dalla prima inquadratura? Ecco, è lui.
Greta Scarano, Viola: come fa la grezzaccia lei, nessuna.

Vabbè, mi sono dilungato pure troppo, è tempo di votazione: 9 pieno.

Ultimo appunto: quanto sono inquietanti i riferimenti ai Casamonica, ai legami tra lo Ior e la criminalità e al sacro terrore che solo le famiglie possono incutere?


Vi confesso che quando vedo film così, oltre a esserne appagato come cinefilo, covo la segreta speranza che gli altri spettatori vogliano correre a informarsi e a scandalizzarsi. 

Lasciatemi sperare. 

giovedì 8 ottobre 2015

Mercoledì cinema, giovedì recensione. Dove eravamo rimasti

Ricki Rendazzo, ovvero la Patti Smith del baretto sotto casa

Mai titolo fu più azzeccato per ricominciare il circolino del mercoledì cinema.

Avremmo potuto essere i protagonisti di un romanzo di Stephen King che dopo 15 anni si ritrovano per riprendere le vecchie abitudini e quello sarebbe stato il titolo perfetto del nostro film personale.

E invece i protagonisti della pellicola (che termine desueto, eh?) sono Meryl Streep (formidabile, che ve lo dico a fare) e Kevin Kline (in una splendida forma attoriale e fisica, per avere quasi 70 anni).

Il film è bello? Non esageriamo. Ottime prove d’attore (ed è uno dei motivi per cui vai a vedere un film di questo genere) con trama leggera e qualche momento telefonato, nonostante la sceneggiatrice fosse Diablo Cody.

Mi ha ricordato il grande freddo, in qualche scena… ma forse era solo la sensazione (espressa benissimo da altri componenti del circolino) che il film avesse un ritmo e un montaggio molto anni ’90. 
Se sei cresciuto negli anni ’90 sai cosa intendo, sennò vai a recuperarti i fondamentali. 
E Jonathan Demme qualcuno di questi fondamentali li ha girati (Il silenzio degli innocenti e Philadephia, mica pizza e fichi).

Insomma, per fortuna la Streep canta da dio, recita meglio e sa calarsi in ogni ruolo possibile. Kevin Kline idem (tranne per il canto ma semplicemente perché non si sono scene in cui ha dovuto sforzare la sua ugola).

Voto: 6 complessivo. 8 ½ ai due attori già citati.

Per concludere, l’aspetto più bello di ieri è stato risedersi al cinema sapendo che abbiamo ripreso una piacevole abitudine.

La cosa brutta per voi è che vi romperò i coglioni di nuovo con le mie recensioni.