venerdì 18 novembre 2016

Mercoledì cinema, giovedì recensione. Io, Daniel Blake


La locandina del film
L’altro ieri sera il circolino del mercoledìcinema ha scelto l’ultimo film di Ken Loach: Io, Daniel Blake.

Il film era proiettato nella splendida sala cinquanta del cinema Anteo a Milano, tra l’altro. Devo dire che pur amando i multisala con i loro impianti audio roboanti e le poltrone giganti, questa piccola sala con i divanetti esercita un certo fascino su di me. Se vi capita, andateci a vedere qualcosa, qualsiasi cosa (al massimo dormirete comodi).
Sono entrato in sala senza aver visto il trailer del film (cosa per me piuttosto rara) ma solo con il racconto di alcune persone che l’avevano visto: mi aspettavo, in buona sostanza, un bel film di denuncia ma fondamentalmente con la caratteristica di essere tristissimo.

Com’è andata?

È andata che le aspettative distorcono la visione, esattamente come uno spoiler. Se però lo spoiler ti dà la certezza di perderti un finale a sorpresa, il colpo di scena che ribalta tutto quello che hai appena visto o di sapere quale dei personaggi principali è destinato a morire, le aspettative di una certa emozione – in questo caso aspettarsi di essere tristi – mi hanno fatto esclamare a fine film: sì, triste, eh. Ma niente di paragonabile a [inserire film veramente triste come Alabama Monroe e simili].

Vabbè, seghe mentali a parte, com’è il film?

Bello come i film neorealisti sapevano essere.

Ken Loach segue le disavventure kafkiane di Daniel Blake, carpentiere costretto a stare a casa dopo un infarto. L’epopea del lavoratore si snoda nei meandri della burocrazia inglese e arriva a raccontare scorci di povertà e dignità che potremmo tranquillamente trovare dietro l’angolo di casa.

Il film non ha una colonna sonora né particolari finezze cinematografiche: per tutta la durata del film ci limitiamo a seguire Blake e a vedere come i diritti negatigli scavano il suo volto e distruggono la sua vita.

Il regista ancora una volta si propone come il cantore degli ultimi, prendendo una storia di quotidiano dolore (tragica, eh, ma normalissima) e facendola diventare – attraverso il linguaggio cinematografico – una denuncia della burocrazia, del “sistema “ e di tutti quegli ingranaggi che schiacciano l’umanità e l’empatia.

Il film non offre alcun appiglio alla speranza, nemmeno quando – per un fugace istante – ci concede di immaginare un futuro fatto di persone schiacciate dal sistema che si uniscono sotto il nome di Daniel Blake: tutto rimane, appunto, solo nell’immaginazione dello 
spettatore, mentre il regista lascia scivolare via quell’istante senza tornarci sopra.

Io a questo punto ho sperato nella rivoluzione
Vale la pena di vederlo? Se vi piace Ken Loach, se volete ricordarvi ancora una volta quanto è sottile il confine tra benessere e disagio (non solo economico) e se volete vedere un film che vi faccia riflettere su quanto vi circonda, allora sì.

Altrimenti trovate un’altra scusa per sedervi sui divanetti della sala cinquanta.